Qui, dove nasce il Po

Qui, dove nasce il Po, il tempo sembra essersi fermato. La strada che dalla pianura porta a Crissolo taglia di netto i campi di granturco e i vari frutteti. Si attraversano paesi formati da quattro case, un’edicola di tanto in tanto, e i contadini che instancabili lavorano nelle loro terre. Il caldo di luglio sembra non fermarli. La loro pelle cotta dal sole è come una corazza. Mi chiedo continuamente se sarei capace di condurre una vita così semplice, dura, e così vicina alla natura.

Mentre l’auto corre, la strada si fa sempre più angusta, e si contorce a formare dei tornanti in cui due macchine farebbero fatica a passare. Incontro un ciclista che fatica duramente senza perdere la concentrazione. Le sue gambe calcano i pedali con grande energia, quasi meccanicamente. La maglia aperta sul petto per il gran caldo mostra Gesù appeso alla croce in una catenina d’oro. E’ la sua protezione.

Anche l’auto, forse, sente la fatica di quei tornanti. A Crissolo, l’aria è più frizzante rispetto alla pianura. La strada principale è invasa da numerose fioriere che danno un tocco assai vivace al paese. Rosso e bianco. I colori forse non sono casuali e richiamano molto probabilmente i colori dello stemma di Casa Savoia. Un senso di appartenenza alle origini?

E’ la domanda che mi pongo poco prima che un cartello, quasi nascosto, mi indica che Pian della Regina non dista che pochissimi kilometri. La brezza ora è fresca e piacevole. Penso al ciclista e cerco di immaginare cosa avrebbe provato quando l’avrebbe investito questa brezza. Pensandoci bene, questa sarebbe dovuta essere il premio per quella grande fatica.

Dopo la gimncana della strada, tra case abbandonate e baite in restauro, le fronde degli aberi si aprono e scoprono la valle. Un piccolo rifugio ospita visitatori provenienti da diverse parti d’Europa. Il tempo continua ad essere fermo, mentre le nuvole hanno cominciato ad addensarsi nascondendo la cima del Monviso. La vedrò un’altra volta, dico tra me e me.

Faccio il cambio delle scarpe, perché mi attende una lunga e pesante camminata. Nella borsa c’è tutto l’occorrente, acqua e un po’ di cibo. Intanto, le nuvole si fanno sempre più grigie. E’ uno scherzo. Dopo aver percorso per alcuni metri, il cielo si apre e il sole cocente investe la valle. Sarebbe difficoltoso salire fin sopra con quel caldo.

La prima piccola tappa è una chiesetta che si erge al centro della vallata. E’ fatta di pietre e posta in un terrapieno al quale si accede attraverso una scalina, ove al termine di essa viene riportato l’anno 1957. E’ inciso sul cemento vecchio. Sulla sinistra, come a fare compagnia alla chiesa, vi è un piccolo edificio dei frati. Mi chiedo come possa essere la vita qui, lontano in fin dei conti dalla vita reale. Forse è il posto migliore per meditare e pregare in silenzio. Gli unici rumori sono l’acqua e il vento. I rumori primordiali.

Comincia ora un sentiero agevole ma non troppo, adiacente ad un alpeggio. E’ il momento di fare una foto. Il fiume si stringe e si arrampica sempre più in alto. Sullo sfondo si nota una cascata di qualche decina di metri, quanto il dislivello che dovrò affrontare. Il cielo s’incupisce nuovamente e poi si riapre ancora.

Testa bassa verso il terreno. La fatica comincia a rallentare il passo. Contemporaneamente discendono altre persone. In silenzio. Solo uno sguardo fugace ed un saluto cortese, come fossimo conoscenti. L’unica cosa in comune con queste persone è l’amore per la natura ed aver visitato quei luoghi. Questo basta per porgere un saluto.

Sento le gocce grondare sul collo, quando il sentiero termina di fianco ad una piccola chiesa che domina l’altura. Il mio premio per aver salito un sentiero così è l’incupirsi del cielo. Ancora un volta. Il fresco mi avvolge e sono costretto ad indossare una giacca. Sulla sinistra compare un rifugio, mentre sulla destra un cartello che indica la direzione della sorgente. Da qui cominicia un’altra piana, come se la valle fosse composta da più livelli posti a diversa quota. E’ Pian del Re.

Ora il sentiero è facile da percorrere. La fatica è vinta e le gambe proseguono senza sosta verso la sorgente. La corrente del fiume è debole. E’ segno che sono vicino. Supero un ponte in acciaio e subito dopo incontro una coppia che scatta una foto. Mi chiedo a cosa, ma quando abbasso lo sguardo noto all’improvviso un masso sul quale c’è scritto “Qui nasce il Po”.

Photo © Michael Floris

Rimango un po’ incredulo perché non mi ero preparato e vedere la sorgente così presto. Scatto una foto di rito  e immergo le mani nell’acqua. E’ gelata. Il freddo mette a repentaglio la mia sensibilità e le tolgo fuori immediatamente. Provo a bere l’acqua. E’ leggera. Leggerissima. Almeno cosi mi pare.

Osservo il cielo e mi convinco che le nuvole lo nasconderanno ancora per molto. Quindi mi cerco uno spiazzo dove trascorrere qualche minuto per apprezzare meglio il posto che mi circonda. Faccio un sospiro e apro gli occhi. Anche i monti vengono nascosti dalle nuovole. Penso sia meglio così. Non avrei sopportato tutto quel caldo. Penso al ciclista. Forse il premio più giusto per lui sarebbe stato riposarsi qui sopra.

Penso ai contadini e ai frati. Il tempo continua ad essere fermo e comincio a capire il perché di questo senso di appartenenza a questi luoghi. Non è l’aria, non è l’acqua, non sono i monti. E’ il tutto. Tutto questo senza uno solo di essi non sarebbe lo stesso. Ognuno non potrebbe fare a meno dell’altro, perché altrimenti questo posto perderebbe di significato.

La città è lontanissima dai miei pensieri. La temperatura mi costringe a rimettermi in cammino verso l’auto. Mentre percorro il sentiero al contrario mi sento felice. Ma non una felicità momentanea, bensì una gioia interiore. Quel posto mi ha arricchito in tutti i sensi, e mi ha insegnato una cosa importante: la vita esiste e continua ad esistere anche senza la modernità.

Mi ritrovo sulla strada del ritorno e incontro un ciclista che scende, poi un contadino che con il suo trattore torna a casa. Il sole mi investe con tutto il suo calore e gioca a nascondersi dietro l’orizzonte.

Il tramonto dietro i campi di granturco mi fa pensare che il ritorno è sempre, inspiegabilmente, più veloce dell’andata.

© Michael Floris – Tutti i diritti sono riservati.

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