Il seminatore di grano – 5. La mietitura

Il sole di luglio era cocente. Remo stava con la schiena all’ingiù da ore e, ogni tanto, guardava se la fine del campo fosse vicina. Accanto a lui c’era suo padre, lo zio Salvatore, e i suoi cugini, Cosmo e Damiano. Proprio come i santi. La zia Teresa quando ruppe le acque quel 26 settembre 1938 diede alla luce due gemelli, del tutto inattesi. In precedenza era già stato scelto il nome di Damiano, ma la zia Santina, zia per rispetto e non per legame sanguigno, propose di chiamare l’altro, Cosmo, perché se il Signore aveva voluto farli nascere quel giorno, significava che la loro venuta fosse stata in onore dei santi.

Cosmo e Damiano erano sempre stati diversi tra loro. Il primo aveva una corporatura robusta e portava i capelli scuri, mentre il secondo era minuto e più alto, e aveva i capelli più chiari. Mentre mietevano il grano, Remo li scrutava e cercava di capire dove effettivamente fossero simili. Guardava le loro braccia muoversi ritmicamente e poi volgeva lo sguardo verso suo padre che, in silenzio, tagliava via il grano con grande velocità. Dietro di lui, immaginava la figura di suo nonno fare la medesima cosa, magari un po’ invecchiato.

Remo si asciugò il sudore dalla fronte con il braccio e continuò con ritmo serrato a svolgere il suo dovere. Non poteva permettersi di finire il lavoro in ritardo.

L’appuntamento fissato con Gilda non l’aveva fatto dormire per tutta la notte. Era per questo che Remo quella mattina, non riusciva a tenere il ritmo degli altri. Il padre gli stava addosso e lo riprendeva di minuto in minuto. Remo era stato tutta la notte a guardare fuori dalla finestra per cercare chissà quale risposta. Non si era mai sentito così e non sapeva se quello che avrebbe fatto il giorno dopo sarebbe stata una buona cosa.

Rovesciarsi un secchio d’acqua dopo una giornata sotto il sole era il giusto premio per tutta quella fatica spesa. Remo guardava fradicio il campo senza una sola spiga di grano, e pensò che tutti ebbero fatto un buon lavoro. Gettò ancora il secchio giù nel pozzo per attingere dell’altra acqua. La terra gli scivolava via da ogni parte del corpo e l’acqua, che gli rigava la pelle, raggiungeva il basso e si tingeva di scuro.

Con i capelli bagnati e spettinati Remo entrò in cucina e si sedette al tavolo.

-E’ questa l’ora di arrivare?- gli disse Maria adirata.

Remo non rispose.

-Mi sembra di parlare con un ciuco.-

Maria sbattè il piatto sul tavolo e sparì a stendere i panni al sole. La pasta era ormai quasi attaccata. Remo guardò la poltiglia con aria perplessa, e con la forchetta la girò sottosopra più volte. Col magone allo stomaco, si alzò dal tavolo senza mangiare manco una forchettata. Non si curò di cosa avrebbe detto Maria alla sera, prese un panino dalla dispensa ed uscì dalla cucina sconsolato.

Il suo unico pensiero, in quel momento, era recuperare i soldi da portare a Gilda. Sopra l’armadio di camera sua stava un barattolo verde che non apriva da tanto. Remo prese una sedia e con tutto se stesso provò ad allungarsi per afferrarlo. La sedia traballava e faceva fatica a tenere il suo peso. Remo, rosso in viso, sforzava sempre di più i suoi muscoli, ma il barattolo era troppo lontano.

Un bastone. Remo aveva utilizzato un piccolo bastone per recuperare il tesoro, che proprio tesoro non era. Provava a contare più volte, per vedere se si fosse dimenticato di qualche moneta, ma nulla.

L’appuntamento ormai era fissato. Remo non avrebbe voluto, ma alla fine, era stato obbligato a rovistare nella cassa panca della nonna. Lì dove nessuno poteva ficcare il naso, neanche suo padre. Remo trovò un bel po’ di soldi. Non aveva avuto premura nel contarli tutti, ma ne prese solo una piccola parte e si era promesso di metterci il resto, se fossero stati troppi.

Remo stava affacciato alla finestra e guardava la mamma che stendeva i panni. Accanto a lei gli sembrò di vedere un bambino che entusiasta le passava la biancheria da stendere. Quei ricordi Remo li conservava con gelosia. Ricordava come correva e rideva, e il sorriso di sua madre da giovane. Troppe cose erano cambiate, e gli si strinse il cuore pensando di dare qualche dispiacere a sua madre.

In lontananza, le bionde colline si sorreggevano tra loro e sopra, il cielo era tinto d’azzurro. Remo vedeva il fiume che tagliava in due la pianura e si perdeva all’orizzonte andando a finire chissà dove. Non c’era un’ombra nel raggio di centinaia di metri, solo qualche albero qua e là, piantato lì forse per caso o per sorvegliare la campagna. Il canto delle cicale faceva un gran baccano ed il suo eco si alzava e rimbalzava tra le colline per poi ritornare nelle orecchie di Remo più forte che mai.

Remo amava quel mondo e non riusciva ad immaginarsi un posto migliore di quello.

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