Anna mi abbracciò da dietro. Si era liberata delle lenzuola, finalmente.
-Preparo un caffè- dissi scomparendo in cucina.
Lei con i capelli tutti scompigliati sorrise appena e mentre mi seguiva in cucina si coprì appena le spalle.
-Torniamo a casa?- le chiesi porgendole la tazzina ancora vuota.
Anna chiuse gli occhi, fece un bel respiro e delle lente circonduzioni del collo.
-Sì. Lo diciamo agli altri-
L’aroma del caffè pervadeva tutta la stanza e il corridoio.
-L’odore del caffè mi ricorda casa della nonna- disse Anna girando il cucchiaino nella tazzina.
Provai anch’io a ricordare qualcosa del genere della mia infanzia, ma a stento ricordavo i miei genitori e la loro casa. Non sapevo che sapore avesse crescere a casa dei nonni.
Anna si accorse di aver aperto una ferita dimenticata, uno di quei pensieri morti e sepolti nell’ossario comune dei pensieri. L’unico mondo dove ciò che è morto riappare vivo più che mai. I pensieri, appunto, non sono mai morti, crediamo di dimenticarcene o fingiamo di crederlo.
Ciano e Titti entrarono in cucina nello stesso istante in cui le nostre labbra si disunirono. Avrei voluto nascondere quel bacio. Ci guardarono immobili, in silenzio, mentre noi provammo a fare i disinvolti, come quando si viene beccati a fare qualcosa che non si deve. Sentii qualcosa dentro il mio petto muoversi animatamente, un movimento che non avevo mai sentito prima, una danza veloce e ritmata.
Guardai i ragazzi in piedi davanti a noi con lo sguardo attonito.
-Che c’è? Non avete mai visto un bacio?- dissi quasi infastidito.
Nessuno dei due rispose alla mia provocazione, poi Titti prese la caffettiera sporca e si mise a fare il caffè nuovamente. Anna scomparve nel corridoio. Quella mattina stessa convincemmo Ciano e Titti a tornare in città.
L’auto si fermò proprio davanti a casa. Guardai Anna per capire che intenzioni avesse, se scendere con me e tornare a piedi oppure farsi accompagnare con l’auto. Scelse la seconda.
Mi fece un sorriso d’affetto e io la salutai dal lunotto posteriore e seguii la macchina con lo sguardo fino a quando non voltò l’angolo. Avvisai Tilde del mio arrivo e posai il borsone sul letto. Mi fermai a guardare quella stanza e per la prima volta provai disgusto. Disgusto per le pareti, disgusto per gli oggetti, disgusto per i miei vestiti. Non mi levai nemmeno la giacca e uscii nuovamente a passo svelto.
Al bar Antonello serviva qualche birra nonostante fosse ancora prima mattina.
-Che si dice?- mi chiese appena mi accostai al bancone.
-Solite cose…- tagliai corto.
-Che ti porto?-
-Un caffè?- risposi incerto.
-Se non lo sai tu!- ribatté divertito.
Dopo nemmeno un minuto Antonello mi servì il caffè fumante.
-Antonè…?-
-Dimmi-
-Mi daresti il contatto di qualcuno dell’orchestrina?-
Lui mi fissò per un momento.
-Ci voglio provare-
Antonello fece di sì con la testa e prese carta e penna, poi da sotto alla cassa tirò fuori un quaderno vecchio e putrido.
-Allora… come cazzo si chiama quello, adesso?- disse a voce alta scorrendo l’elenco con l’indice.
Lo guardavo divertito mentre dagli occhiali si scorgevano gli occhi ingranditi distorti per il forte ispessimento del vetro.
-Eccolo! Te lo scrivo subito e digli che il suo contatto te l’ho dato io-
Presi il bigliettino al volo e feci uno scatto verso l’uscita.
-Ma beviti questo caffè, almeno- mi rimproverò.
-Hai ragione!-
Preso dall’eccitazione trangugiai il caffè ancora bollente in un solo colpo e uscii di corsa. Tornai a casa presi la chitarra e qualche gettone, e mi incamminai alla cabina telefonica dietro la bottega.
Avevano cominciato a tremarmi le mani appena vidi quel telefono appeso al muro. Chiusi la porticina per non farmi sentire e provai a comporre il numero facendo attenzione a non sbagliare, perché avevo solo due gettoni.
Quella mattina non dovevo andare al lavoro, così ne approfittai per fare due passi lì vicino, dove le montagne si vedono nitide in tutta la loro interezza. Pensai alla mia incapacità di esprimere i sentimenti e a come Anna fino ad allora era stata molto paziente con me.
Passò un aereo a squarciare il cielo e rimbombò tutto intorno. Sentii il petto stringersi, come incapace di riaprirsi per riprendere il respiro. Se le persone manifestassero i propri sentimenti a voce alta, me compreso, sarebbe un mondo diverso. Mi sentivo incapace di tutto. L’unica cosa che sapevo fare era guardare quelle montagne che campeggiavano tutto intorno. Ma come si può amare uno che guarda solo le montagne?
Michael Floris – Tutti i diritti sono riservati.